Nadia Maria Filippini, Per una
storia dell’infanzia a Venezia
La storia
dell’infanzia è stata al centro, in questi ultimi anni, di un interesse
sempre maggiore da parte degli storici, in particolare francesi e inglesi,
che ha portato alla fioritura di numerose ricerche sulla vita quotidiana,
sulle relazioni parentali, sulle istituzioni per l’infanzia, sulla
rappresentazione stessa del bambino.
A contribuire all’emergere di questo interesse specifico stanno una serie
molteplice di fattori, sia di carattere storiografico che sociale:
l’affermarsi della storia sociale e delle mentalità, e più tardi di quella
delle donne, così intrecciata alla storia dei bambini; l’attenzione per
gli aspetti della vita quotidiana e delle relazioni familiari, per
l’educazione e la cura, ma soprattutto l’emergere di una percezione nuova
del bambino come soggetto sociale. L’imporsi di questa rappresentazione
sta sotto i nostri occhi in maniera evidente, nell’enfasi discorsiva che
lo riguarda, nello spazio sempre maggiore che occupa nei mass media, nelle
iniziative di formazione, nel proliferare di iniziative di cui è oggetto,
fino al riconoscimento e alla codificazione di diritti specifici da parte
di organismi internazionali come l’ONU (Dichiarazione dei diritti del
fanciullo, 1959) e all’istituzione dell’UNICEF.
Certo tutto questo avviene in maniera contraddittoria, con profonde
differenziazioni tra la realtà dei paesi industrializzati e quella del
terzo e quarto mondo, ed anche all’interno della stessa società
occidentale, come giustamente osserva Stuart Woolf (Filippini-Plebani 1999), ma non di meno o forse tanto più per questo si configura
come uno degli elementi caratteristici della nostra epoca. Non a caso il
grande storico francese Philippe Ariès, uno dei pionieri della storia
sociale dell’infanzia, nell’introduzione al suo libro L’enfant et la
vie familiale sous l’ancien régime (1960), dichiarava di esser partito
nel suo percorso di ricerca storica proprio dall’osservazione di un presente connotato dall’emergere di forti sentimenti nei confronti
dell’infanzia, di relazioni familiari quanto mai intense, di una
centralità del bambino per molti aspetti inedita, che gli suscitava
domande e interrogativi sul passato:
“Osservando i fenomeni demografici moderni… mi è sembrato che nelle nostre
società industriali la famiglia tenesse un posto immenso e che mai forse
avesse influito in modo così decisivo sulla condizione umana (...). Il
sentimento della famiglia si presenta come una delle grandi forze del
nostro tempo. E allora io mi chiedo non se è in declino, ma se è mai stato così forte e persino se, veramente ha radici in un passato non prossimo
(...). L’esperienza della rivoluzione demografica moderna ci ha rivelato
la parte che ha il bambino in questa tacita storia. Sappiamo che il
sentimento dell’infanzia e quello della famiglia sono in relazione;
abbiamo ragione di supporre che fosse così anche nei tempi più lontani e
di cercare in ognuno dei due sentimenti un sussidio per la valutazione
dell’altro. Perciò li studieremo insieme” (Ariès 1976).
L’affermazione della soggettività del bambino rappresenta una delle più
importanti trasformazioni della nostra storia, un aspetto che segna un
cambiamento profondo e radicale, sulle cui periodizzazioni, cause, effetti
s’interroga la ricerca storica. Quando il bambino comincia ad esser
visto come essere a se stante? Quando e come ad una immagine passiva e
per molti aspetti negativa (l’«essere imperfetto» di tradizione
agostiniana) si sostituisce un’immagine positiva? Quali connotazioni la
caratterizzano?
Assumendo una prospettiva di lunga durata, il cambiamento rivela radici
profonde, che affondano nella trasformazione della famiglia in età
moderna, come dimostra Ariès. Tuttavia è nel corso della seconda metà del
Settecento che il processo subisce un’improvvisa accelerazione. Il bambino
diventa oggetto di un’attenzione che accomuna filosofi, politici,
ecclesiastici; centro di un’indagine mirata che punta a ridefinirne le
caratteristiche, gli attributi, le competenze. Si tratta di un percorso
discorsivo che ne evidenza l’importanza e la centralità non solo per la
famiglia, ma per la società e lo stato. Il bambino fin dai primi giorni di
vita è visto come «speranza della patria», per riprendere l’espressione di
un medico-politico del secondo Settecento, come «capitale umano» tanto
più prezioso in quanto potenzialmente più «sfruttabile», come si legge
nelle analisi dei politici (Filippini 1995; D’Amelia 1997).
A contribuire in modo determinante a questo mutamento di percezione sta
l’affermarsi del concetto illuministico di cittadinanza e stato,
l’immagine del popolo non più come insieme di sudditi, ma di cittadini,
«corpo sociale» la cui integrità e sviluppo costituisce l’oggetto primo
del «buon governo». Non a caso teorie del contratto sociale, attenzione
mirata all’infanzia e al potenziamento demografico, valorizzazione
dell’educazione si intrecciano nella produzione dei Philosophes. La
preservazione della vita delle madri e dei bambini, la lotta contro la
mortalità neonatale ed infantile si configurano come uno degli obiettivi
principali dello stato, non solo come un interesse ed una preoccupazione
delle famiglie: “le but, le devoir d’un gouvernement sage est évidement la
peuplade et le travail”, scriveva Voltaire. E’ questa l’epoca nella quale
prende il via la campagna per il potenziamento demografico, articolata sul
piano medico dall’affermazione di nuove pratiche di cura e di misure di
prevenzione, a cui corrisponde, sul piano della formazione, il diffondersi
di nuove teorie nel campo dell’educazione, di cui Rousseau, con il suo
Emile ou de l’éducation (1762) è l’indiscusso capofila. Concetti e
sensibilità che raggiungono nell’Ottocento una piena affermazione e
un’ampia diffusione, con l’affermarsi del liberalismo e gli obiettivi
politici di formazione ed educazione del popolo. Si assiste in quest’epoca
al proliferare di analisi, considerazioni e teorie sull’infanzia, al
fiorire di una serie così articolata e vasta di iniziative pubbliche, da
configurare l’Ottocento come «il secolo dell’infanzia». Il titolo del
libro di Jean-Noel Luc, uno dei maggiori studioso del fenomeno, L’invention
de l’enfant au XIXe siècle (1997), è significativo della crucialità di
questa epoca nella storia dell’infanzia.
Vengono elaborate in questo periodo le teorie più innovative nel campo
dell’educazione e dell’insegnamento, a partire da quelle di Pestalozzi,
Aporti, Froebel, per finire con Maria Montessori, che alla fine del
secolo, facendo tesoro di queste esperienze, lancia il suo progetto
formativo basato appunto sul rispetto della persona del bambino (Comba
1996).
L’iniziativa delle élites liberali prima, di quella dello Stato poi, dà il
via alla creazione di numerose istituzioni educative: asili per
l’infanzia, scuole popolari, corsi di alfabetizzazione, biblioteche
circolanti, nella convinzione che l’educazione del popolo sia
indispensabile premessa all’affermazione e alla tenuta di uno stato
nazionale e che quella specifica del bambino rappresenti l’investimento
più importante. Anche da parte di larghi settori della Chiesa si assiste
ad uno sforzo mirato in questa direzione, ad un rinnovato impegno non solo
per la cura morale e spirituale, ma per quella intellettuale e
professionale.
Di pari passo con l’attenzione per l’educazione cresce anche l’impegno per
la cura fisica: la lotta contro la morbilità e mortalità infantile, ancora
assai elevate nel corso dell’Ottocento, si articolano in iniziative
diverse che vanno dalla diffusione di nuovi principi di igiene,
all’adozione di misure di profilassi e prevenzione (come la
vaccinazione), alla creazione di luoghi e centri per l’infanzia malata:
ospizi marini, ospedali pediatrici, colonie, ecc.
In questo panorama
di trasformazioni sociali e culturali, Venezia occupa un posto tutt’altro
che secondario a livello nazionale, come hanno messo in luce recenti
ricerche (Filippini-Plebani 1999), prefigurandosi come un contesto nel
quale matura una precoce sensibilità e attenzione, un diffuso impegno
sociale e nel quale prendono il via iniziative d’avanguardia.
Già sul finire del Settecento, al pari di altri governi illuminati, la
Serenissima aveva avviato la creazione di scuole di istruzione elementare
di sestiere, secondo un progetto elaborato da Gaspare Gozzi, che recepiva
un lungo dibattito articolatosi nel corso del secolo, che aveva
trovato a Venezia nell’Algarotti, in Goldoni, in Alessandro Bandiera
convinti sostenitori dell’istruzione anche femminile (Filippini 2002).
Uno sforzo pubblico nella direzione dell’alfabetizzazione che si
moltiplica nel corso dell’Ottocento, con il proliferare di iniziative
rivolte ai bambini e bambine di tutte le età.
Nel 1835 viene istituita la Commissione per le scuole infantili di
carità, presieduta dal podestà Conte Nicolò Priuli, con lo scopo di
attivare asili per bambini poveri dai 2 ai 6 anni. Nel giro di pochi anni
ne vengono istituiti 5 in vari sestieri della città (a Castello, presso
l’Istituto della Pietà, a San Marziale, all’Angelo Raffaele, a San Giacomo
dell’Orio), che arrivano a registrare verso la metà del secolo quasi un
migliaio di presenze. Ai bambini si insegnava a leggere, a scrivere, ad
apprendere elementari nozioni di matematica, secondo il metodo dell’abate
Ferrante Aporti, sostenitore dell’apprendimento precoce, promotore di
asili a Cremona e Milano, autore del Manuale di educazione ed
ammaestramento per le scuole infantili di carità (1833). Accanto alle
sale per i più piccoli, negli asili trovavano spazio anche sezioni per i
più grandi, dove i bambini di età scolare venivano istruiti, dopo la
scuola, nell’apprendimento di semplici mestieri (torcitura e filatura del
lino e della canapa, intreccio della paglia, coltura dei bozzoli). L’iniziativa era sostenuta interamente dalla carità privata, dalla
filantropia delle classi dirigenti, il cui obiettivo aveva un segno miratamente conservatore: rinsaldare i legami tra popolo e classi
dirigenti, prevenire malcontenti e insubordinazione, educare il popolo al
lavoro e all’ubbidienza, nella convinzione che “un popolo moralizzato,
guidato dalla religione dei suoi giuramenti non rivolgerà il petto giammai
contro il trono cui promise ubbidienza”, come scrive Nicolò Priuli
nell’opuscolo Sugli asili di carità e sulla loro utilità
particolarmente a Venezia (1840). Tra i nomi che più si impegnano in
questa direzione, oltre a Nicolò Priuli, figurano alcuni tra i più
prestigiosi dell’aristocrazia veneziana: Giuseppe Boldù, Francesco Donà
Delle Rose, Giovanni Correr.
L’impostazione cambia e muta di segno nel corso del secolo, per divenire
sempre più appannaggio della aristocrazia e borghesia progressista e
liberale. Ad impegnarsi concretamente nel campo dell’educazione, a partire
dalla metà dell’Ottocento, sono i liberali, uomini come Nicolò Tommaseo (Dell’educazione.
Desideri e saggi pratici, 1856), ma soprattutto donne, le vere
protagoniste dell’offensiva pedagogica del secondo Ottocento.
Nel 1869 viene aperto a Venezia, in località Santi Apostoli, per
iniziativa di Adele Levi della Vida, figlia di Samuele Della Vida e di
Regina Pincherle, importanti protagonisti del ’48, il primo asilo
freobeliano d’Italia. A dirigerlo viene chiamata Emilia Froehlich,
direttrice dell’asilo-modello di Berlino. L’iniziativa non resta isolata;
fa anzi da volano alla creazione di altre simili istituzioni: nel giro di
cinque anni vengono aperti altri tre asili froebeliani: uno diretto da Adolfo
Pick, il maggior diffusore in Italia del metodo di Froebel; l’altro a
Cannaregio, voluto dalla filantropa russa Elena Raffalovich Comparetti per
i bambini poveri della città. Anche gli asili di carità vengono riformati
nel metodo e nell’impostazione, con l’accoglimento di molti suggerimenti froebeliani, da Laura Goretti Veruda, direttrice dell’asilo di San
Marziale. Anche la famosa scrittrice Luigia Codemo era attiva in questo
campo, in quanto presidente della sezione veneziana dell’Associazione
nazionale per la promozione degli asili di infanzia, fondata a Firenze nel
1867 da un gruppo di liberali, tra i quali Ottavio Gigli, Bettino Ricasoli,
Carlo Matteucci. Tra le iniziative di questa associazione, l’attivazione
di una scuola per analfabete presso la parrocchia di Santa Maria Formosa e
l’istituzione di vari asili nell’estuario veneziano (Filippini 2002).
Questa è anche l’epoca dei Congressi pedagogici. L’VIII si svolge proprio
a Venezia nel 1872 e rappresenta un importante momento di dibattito, di
confronto e di conoscenza.
Anche il mondo cattolico si mobilita nella direzione di un rinnovamento
educativo, quasi in una specie di gara, volta alla riaffermazione e al
ripristino di un antico primato sul mondo laico (Bertoni Jovine 1965;
Tomasi 1978). Nel 1804 i fratelli Antonio Angelo e Marco Antonio Cavanis
fondano a San Trovaso una scuola per bambini poveri, che allarga via via,
nel corso dei decenni successivi, la propria utenza e le proprie
caratteristiche, con la sperimentazione anche di metodi nuovi, come quello
del «mutuo insegnamento». Don Luigi Caburlotto attiva invece l’Istituto
“Figlie di S. Giuseppe”, con iniziative di accoglienza ed educazione
rivolte alle bambine. Ma è soprattutto l’istituzione di Don Luca Passi,
la “Pia Opera di S. Doretea”, a conoscere a Venezia una straordinaria
diffusione, arrivando a coinvolgere, negli ultimi decenni dell’Ottocento,
ben 5150 fanciulle, con una presenza in 21 parrocchie. Se questi
due istituti puntano soprattutto sull’educazione delle donne, secondo
un’attenzione mirata della Chiesa dell’Ottocento, i “patronati” avevano
invece lo scopo di raccogliere soprattutto i ragazzi, allontanandoli dalla
strada e offrendo loro opportunità di ricreazione, di cristiana formazione
e di lavoro. Si tratta anche in questo caso di una iniziativa peculiare
veneziana, attribuita all’iniziativa del sacerdote Giambattista Piamonte,
che si diffonde poi anche in altre città. Il primo Patronato per
ragazzi vagabondi e viziosi di San Pietro di Castello, aperto nel
1858, arriva a raccogliere e coinvolgere in modi differenti centinaia di
ragazzi; nel 1879 i patronati serali erano ben 23 con circa 1.300
presenze.
L’obiettivo della lotta contro il vagabondaggio infantile, visto come
causa di mali morali e sociali, è anche all’origine della creazione e del
funzionamento di importanti istituzioni di accoglienza ottocenteschi, come
l’Istituto Manin (1836) e gli orfanotrofi delle Terese e dei Gesuati.
Nell’impostazione di tutti l’educazione al lavoro occupa un posto centrale
e viene individuata come risorsa di edificazione morale e formativa, prima
ancora che economica. A questa stessa idea del lavoro come fondamento di
educazione, e dunque oggetto di beneficenza, corrisponde anche la
creazione di una Fabbrica di cartonaggio (1868), riservata a ragazzi e
ragazze vagabondi e poveri. Iniziativa del tutto laica, sostenuta da una
Società Anonima composta di 86 cittadini, tra cui figurano alcuni nomi
importanti del liberalismo (come Giobatta Giustinian), rappresenta un
interessante esempio di intreccio tra beneficenza e paternalismo
industriale, tra finalità educative e morali e interessi economici, che
ritroviamo altrove nella realtà veneta.
L’attivazione di tutte queste iniziative, dal carattere anche diverso, con
accentuazioni più educative, assistenziali o morali, stimola anche una
produzione di manuali e libri per l’infanzia, che si fa più intensa verso
la fine del secolo. Le stesse figure che troviamo impegnate nel campo
dell’insegnamento e nella direzione di asili e scuole, come Adele Levi
della Vida, Laura Goretti Veruda, pubblicano manuali, testi e traduzioni
destinati ai loro allievi; altri si fanno promotori di riviste pedagogiche
come il “Gasparo Gozzi”. La scrittura per l’infanzia è un genere in cui
si cimentano ed emergono molte donne, anche venete, da Rosa Piazza a Ida Baccini, a Caterina Percoto, a Erminia Fuà Fusinato.
Un’altra importante direzione di intervento si indirizza nei confronti
della prima infanzia, con la creazioni dei primi modelli di asili-nido,
riservati ai bambini dai primi mesi ai tre anni di vita, figli di madri
lavoratrici. I primi “presepi”, come allora venivano chiamati, sorgono a
Venezia alla metà del secolo, per iniziativa di apposita Commissione dei
ricoveri pei bambini lattanti, posta sotto la supervisione della Chiesa. E’ tuttavia all’iniziativa di Elisabetta Michiel Giustinian, protagonista
del ’48, moglie di Giobatta Giustinian, sindaco della Venezia liberata, che
si deve la creazione della prima istituzione moderna di asilo per
lattanti, impostata secondo nuovi principi di igiene, di cura e di
educazione: l’asilo “Giobatta Giustinian”, dedicato alla memoria del
marito, ubicato nei pressi della grande fabbrica dei Tabacchi a Santa
Marta. Laico, diretto da una commissione interamente femminile, l’asilo,
impostato secondo criteri d’avanguardia, arriva ad accogliere nel 1880 più
di 100 bambini. Elisabetta Michiel si avvale nella conduzione, sia per
gli aspetti organizzativi che per quelli dietetici, della collaborazione
del medico igienista Cesare Musatti, fondatore della rivista “L’igiene
infantile” (1878).
Il Musatti è rappresentante di una folta schiera di medici progressisti
che risultano attivamente impegnati sul finire del secolo nella lotta
contro la mortalità infantile, che a Venezia raggiungeva ancora
percentuali particolarmente significative, tra le più alte d’Italia.
Accanto a lui figurano nomi come quelli di Moisé Raffaello Levi, Giacinto
Namias, Giandomenico Nardo, attivamente impegnati nella promozione di
iniziative di prevenzione e di cura per l’infanzia povera e malata.
Giandomenico Nardo è, alla metà del secolo, direttore dell’Istituto della
Pietà, che registra ancora un numero di esposizioni assai elevato,
crescente dopo la metà del secolo specialmente per quanto riguarda i “bambini legittimi” (Grandi 1997). Nel 1867 viene creata la
Società
veneziana contro la Tubercolosi, con lo scopo di assistere i bambini più a
rischio di malattia, poveri e i figli di malati. A questa si deve
l’istituzione alla Giudecca di appositi padiglioni, dove i bambini di età
prescolare potevano godere di sole, cibo abbondante ed esser sottoposti a
cure mirate di ginnastica respiratoria. Nel 1888 viene anche creato l’Educatorio
Rachitici. In questa direzione di prevenzione andava anche la creazione di
scuole all’aperto per bambini presso l’isola di Sant’Elena (1913), dove
l’insegnamento veniva impartito, nella bella stagione, in mezzo al verde,
con appositi banchi pieghevoli. Anche l’istituzione di colonie, per le
quali Venezia registra un altro primato a livello nazionale, corrisponde
allo scopo di rinvigorire il fisico di bambini minacciati da malattie che
trovavano la loro origine, oltre che nella malnutrizione, nelle pessime
condizioni igieniche e abitative in cui versava una larga parte della
popolazione veneziana. La prima viene aperta a Feltre nel 1898 per
iniziative della Lega degli insegnanti veneziani e del Patronato Pro Schola, seguita ben presto da altre analoghe istituzioni. All’iniziativa
privata e alla beneficenza si deve anche la creazione sia dell’Ospedale
marino (1868), sia dell’Ospedale pediatrico Umberto I (1912).
Venezia dunque appare come una realtà particolarmente significativa per lo
studio dell’infanzia; un contesto che consente di cogliere e di analizzare
al meglio alcuni aspetti importanti di questa storia complessa:
l’affermarsi di nuove percezioni e sensibilità, il ruolo delle
istituzioni, il rapporto tra élite e popolo, le reti di relazione, la
realtà di vita dei bambini, spesso contraddittoriamente sospesa, ancora
nell’Ottocento, tra cura e attenzione, sostegno e abbandono, sfruttamento
e amore.
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